sabato 4 luglio 2009

Cineforum Antonianum un pò di storia - parte II




Cineforum dell’Antonianum un pò di storia

Dopo esser stato, nei mesi precedenti l’aprile del 1945, un crocevia di rifugiati e cospiratori, e una centrale delle trattative per la resa degli occupanti tedeschi, il collegio universitario Antonianum riprendeva la propria attività istituzionale di formazione. Nella primavera del 1946 sotto la guida di padre Babolin un gruppo di studenti si riunì per proiettare e discutere un ciclo di film sovietici, tra i quali non poteva mancare La corazzata Potemkin di Sergej Ejzenstein: era questo il primo germe del “Cineforum”, sul modello di quelli che il domenicano padre Morlion aveva fondato a Bruxelles e a Roma. Tra i primi cultori del cinema che prestarono la loro opera vi furono i giovani del Centro Universitario Cinematografico (CUC): Toto Lugli, Gianfranco De Bosio e Piero Tortolina. Dopo la stagione sperimentale, nel 1947 il primo organico programma fu inaugurato dal film di De Sica I bambini ci guardano, girato tra il 1943 e il 1944, un tenero ritratto dell’infanzia che prelude a Sciuscià e Ladri di Biciclette.
Le proiezioni avevano luogo nella sala delle conferenze e rappresentazioni, all’interno dell’edificio liberty progettato da Gino Peressutti nel 1904, finché nel 1952 non fu inaugurata la nuova “Sala Accademica”, più nota come Teatro Antonianum.
Oltre agli interventi di padre Carlo Messori, i dibattiti erano giudicati da specialisti esterni alla sede di Padova, come Nazareno Taddei (già studente e catechista nella periferia padovana negli anni del dopoguerra) e Antonio Covi, due gesuiti che da anni si interessavano alla critica cinematografica.
Quest’ultimo, padovano, dirigente dell’Azione Cattolica e tra i fondatori del cine-club “Padova”, si era laureato nel 1940 con una tesi sull’estetica del film, subito pubblicata nella rivista “Bianco e Nero”. Prima della guerra aveva realizzato alcuni documentari (Gli allegri spiriti, L’incontro, Un povero diavolo, Uomini del Fiume, Oasi) e aveva frequentato i corsi di regìa del Centro Sperimentale di Cinematografia assieme a De Santis e Antonioni. Fattosi gesuita nel 1945, era stato tra gli organizzatori a Milano del Centro Culturale S. Fedele e dirigeva il cineforum dell’Istituto “Leone XIII”, collaborava inoltre come critico letterario e cinematografico alla rivista “Letture” e aveva appena pubblicato La critica estetica del film.
Il ritorno di padre Covi a Padova nel 1959, per dirigere i dibattiti del cineforum, giunto al tredicesimo anno di attività, è salutato dalla stampa locale come un riconoscimento del livello culturale e del successo dell’iniziativa. Tra le novità che si accompagnano all’arrivo di padre Covi sono da segnalare l’apertura di una biblioteca dedicata al cinema, l’istituzione di un corso per direttori di dibattito e la decisione di escludere dalla programmazione i film classici, principalmente quelli muti, per privilegiare “un panorama fresco e vivo della migliore produzione attuale” (“Il Gazzettino”, 26-10-1959).
Il programma di proiezione del 1959-60 prevede una serie di tre cicli di film con tematica comune: il primo considera il cinema “come documento di costume sociale”, il secondo si occupa degli “ideali dell’uomo moderno: vie false, vie vere”, il terzo della “problematica dell’amore: ideali e crisi”. Tra i registi (“sicuri nomi del cinema mondiale”, “Avvenire d’Italia”, 26-10-1959) figurano Bresson, Ritt, Castellani, Rossellini, Kubrick, Wyler, Monicelli, Ford, Truffaut, Dreyer, Germi (…). Ad inaugurare la rassegna è scelto il film del regista indiano Satyajit Ray Aparajiito, Leone d’Oro del XVIII Festival di Venezia, non ancora programmato a Padova; per presentarlo e discuterlo, assieme a padre Covi e all’avvocato Belloni, viene da Roma il gesuita Enrico Baragli, che si occupa di cinema sulla “Civiltà Cattolica”. Al tavolo siedono anche, in qualità di testimoni ed esperti, due studenti indiani (uno di religione induista) ospiti del CUAMM.
L’anno dopo viene dedicata una “personale” a Ingmar Bergman, di cui viene proiettato per primo Il settimo sigillo, seguito da una discussione tra padre Covi, Alberto Bertolini del “Gazzettino”, il prof. Santinello, docente di filosofia, e l’avvocato Giancarlo Rossi. Il resoconto giornalistico, molto partecipato, di Vito Peschechera si avvia dalla riunione del “piccolo mondo degli amanti del cinematografo della città” per arrivare a un ardito paragone tra “l’intaglio ligneo dei personaggi di Bergman” e “la statuaria freddezza di quelli di Dreyer” e concludere con una nota sul pubblico “sfollato lentamente”, mentre “alcuni gruppetti si sono attardati all’esterno per discutere ancora sull’esistenzialismo di Bergman” (“Il Gazzettino”, 18-11-1960)
La formula di base del cineforum prevede la presentazione del film prima della proiezione, l’intervento di esperti dopo la proiezione, le domande del pubblico e la conclusione da parte del direttore del dibattito.
Per impedire lo sfollamento della sala a proiezione ultimata, il regolamento richiede ai soci, oltre all’acquisto della tessera, l’accettazione della “metodologia” del cineforum, cioè l’impegno di trattenersi per un tempo minimo (mezz’ora dalla fine del film). Il direttore del dibattito coordina gli esperti che esprimono, secondo le proprie competenze, pareri e giudizi estetici o morali, sollecita le domande del pubblico, restìo a scoprire perplessità o dissensi, a volte bloccato dal panico dopo le argomentazioni degli esperti.
Tra i film discussi nel 1959, L’urlo e la furia di Martin Ritt viene affrontato da padre Covi per la parte morale, dal professor Pullini per la parte estetica, in particolare l’analisi della fonte letteraria (il romanzo di William Faulkner), e dall’avvocato Giudice per la parte sociologica, mentre I soliti ignoti di Monicelli è ritenuto “così piacevole e così divertente da far dimenticare l’abitudine ormai da tempo contratta alla discussione e alla polemica” (“La Gazzetta del Veneto”, 25-02-1960). In un bilancio di fine rassegna, Peschechera, commentando il buon esito di film ritenuti difficili, sottolinea l’importanza del cineforum nella formazione di “spettatori “educati” ad apprezzare i meriti e i valori psicologici delle varie cinematografie” ed esprime la convinzione che esso sia responsabile dell’affinamento del pubblico delle prime visioni cittadine (“Il Gazzettino”, 16-6-1960). L’attenzione della stampa, nella cronaca locale, è sistematica e i resoconti dei dibattiti, a volte anonimi o solo siglati, accompagnano tutte le proiezioni. Pur confondendo l’autore di Orfeo negro, Marcel Camus, con il romanziere Albert (“Come già Cocteau, Camus ha voluto provare le sue qualità di scrittore attraverso la macchina da presa”), Vito Peschechera si sofferma sul dibattito (“il punto più importante”) svoltosi tra una “giuria” coordinata da padre Covi e composta da padre Giuseppe Melinato (“Civiltà Cattolica”), da Alessandro Prosdocimi, direttore del Museo Civico, e dallo studente del CUC Giuseppe Grisi: “L’osservazione più importante, a parer nostro, è stata quella del prof. Prosdocimi che ha rilevato nel film due stili separati di pittoricismo: l’uno impressionista, comune a tutti i film francesi a colori, e l’altro più surrealista e nuovo presente in parecchie fulminee sequenze” (“il Gazzettino”, ritaglio s.d.).
Per differenziare l’offerta tra i fruitori, secondo il grado di maturità del pubblico e il contenuto morale del film, vengono istituite tre sezioni: per i professionisti, per gli studenti universitari e per quelli delle medie superiori, con proiezioni serali e pomeridiane. Per il 1963-64 agli studenti medi sono riservati tre cicli “elementari”, con un dosaggio di divertimento e impegno: i generi del cinema (dal western al comico), i grandi “leoni” (film variamente premiati), le relazioni umane.
Nel 1960 il Corso di Cultura Cinematografica si intitola alla “Discussione critica del film”, dividendosi tra lezioni, nell’Aula dei Cento, e proiezioni, nella sala dell’Antonianum. L’interesse è posto in egual misura sulla “tematica” e sullo “stile” del film, sugli aspetti estetici e su quelli etici, finalizzando le lezioni ai “compiti del direttore del dibattito”. Alla fine del corso un colloquio permette ai frequentatori di ottenere l’attestato per dirigere un cineforum. La moltiplicazione dei cineforum in città, in periferia e in provincia è, sicuramente, uno dei risultati diretti del successo dell’esperienza all’Antonianum, che serve da ineguagliabile modello per le parrocchie e circoli culturali.
Numerosi sono stati anche, nel corso degli anni, gli incontri padovani con autori cinematografici, chiamati a presentare le loro opere, da Nanni Loy a Ermanno Olmi, da Nelo Risi (Diario di una schizofrenica) a Valerio Zurlini (Seduto alla mia destra).
Alla fine degli anni Settanta, la stagione della contestazione non poteva lasciare traccia sull’attività dell’Antonianum, dall’accusa per le scelte ritenute troppo generiche (cfr. Orio Caldiron, “Il Resto del Carlino”) al calo degli iscritti.
Ma già nel 1973 la crisi poteva ritenersi superata e l’Antonianum si associa alla federazione dei cineforum (Cinit), dalla quale è uscito solo recentemente (primavere 1997). Negli anni Ottanta si contavano fino a 300 studenti medi e 900 tra universitari e professionisti iscritti. Con il modificarsi del panorama della comunicazione negli ultimi anni si sono aggiunti i corsi di cultura audiovisiva, le cui lezioni vengono raccolte in quaderni: nel 1990 “Dal cinema alla videorealtà: spettacoli e spettatori dentro e fuori la TV”, nel 1991 “Cinema, televisione, società”, nel 1992 “Cinema e racconto”, nel 1993 “Cinema: l’immagine e il suono”.
L’attenzione, che da oltre mezzo secolo l’Antonianum dedica alle forme dello spettacolo, sembra contraddire una regola di padre Stanislao Giuseppe Leonardi, fondatore della prima residenza dei gesuiti a Padova (“L’andare ai pubblici teatri è assolutamente proibito”), ma il Regolamento del 1975 fissa le finalità del Cineforum in questi termini: “Esso si propone l’analisi e la valutazione del fenomeno filmico, nell’attenta considerazione dei valori umani e cristiani”, mentre padre Covi sintetizza l’essenza del cinema nella “verità alla luce della bellezza”. Il linguaggio cinematografico e le sue espressioni continuano a godere delle considerazioni principalmente come veicolo di un contenuto, di un messaggio, che l’analisi del film insegue e sottolinea nel suo avvicinarsi a, o allontanarsi da, un codice obiettivo di valori morali, prima che estetici.




Copyright © dicembre 1998
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Padova – Via Turazza, 19

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